La Repubblica Sociale Italiana nacque nel settembre del 1943, in quella parte di territorio italiano occupata dalle truppe della Wehrmacht.
Gli Alleati premevano al sud del territorio italiano. I russi, sul fronte orientale, marciavano ormai inarrestabili. La presenza dei sottomarini in Atlantico era svanita, distrutta dalle contromisure aeronavali prese da americani e britannici. Non passava giorno che stormi di bombardieri alleati sganciassero le loro bombe su ciò che rimaneva del Reich.
Dopo nove mesi, nel giugno 1944, gli anglo-americani riuscirono a far breccia in Normandia e ad aprire il fronte occidentale.
Anche al meno esperto di strategia militare era chiaro come si stava volgendo la guerra: era solo questione di tempo e gli Alleati avrebbero sconfitto la Germania.
Nonostante ciò, sarebbe sbagliato pensare che all’interno della Repubblica Sociale non si parlasse di Europa. O meglio, sarebbe sbagliato pensare che tutti dessero per scontato che il Fascismo non avesse più niente da dire su quell’Europa che, almeno in teoria, l’Asse avrebbe costruito.
Anzi, dal giugno del 1944 sul piano ideologico RSI e Terzo Reich camminavano sempre più allo stesso passo. Così come le stremate truppe naziste e fasciste anche le idee marciavano ancora fianco a fianco, al passo dell’oca. Sempre più, nei quotidiani e negli altri organi di propaganda, Fascismo e Nazismo erano in sintonia sui grandi temi del conflitto: il complotto giudaico-massonico, l’antisemitismo, l’antibolscevismo e, infine, l’idea di una Europa nuova, di un nuovo ordine da costruire (Gagliani, Brigate nere, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 212).
Possiamo renderci conto maggiormente di tale affinità dando un rapido sguardo a diverse fonti a stampa della RSI.
Nel dicembre 1943 (quando la propaganda della Repubblica Sociale metteva in primo piano l’idea di “Patria” e di “Italia”), Roberto Pavese sosteneva la necessità di andare oltre l’idea di nazione e il bisogno di fare leva sul valore universale del Fascismo (Pavese R., Nazione e Rivoluzione, in: «Il Fascio», 4 dicembre 1943).
Qualche mese dopo, quando il fronte si era assestato sulla linea Gotica (a partire dall’autunno 1944), i propagandisti fascisti dovettero far fronte all’evidenza della crisi.
Era chiaro che la RSI aveva giurisdizione su un territorio molto limitato e che rimaneva in piedi solamente grazie alle truppe naziste presenti sul territorio e che frenavano l’avanzata degli Alleati. Era impossibile rivendicare una autonomia da parte fascista nella guerra. Era necessario quindi fare sempre più ricorso alla guerra dell’Asse più che della guerra dell’Italia e, di conseguenza, sulla necessità di sentirsi europei, cioè di guardare sempre più necessariamente al Terzo Reich (Gagliani, Brigate nere cit., pp. 214-215).
Corso Buscaroli, direttore dell’organo di stampa del PFR di Imola, scriveva nel suo articolo di fondo nel giugno 1944 (Buscaroli C., Sentirsi europei, in: «Voce di Romagna», 18 giugno 1944):
«Dobbiamo sentirci solidali, consorzialmente uniti con queste Nazioni [del patto Tripartito], non solo relativamente alle aspirazioni affini o identiche, ma proprio nel settore tecnico della condotta della guerra, nel campo delle pratiche possibilità e attuazioni. Stati Uniti della Nuova Europa: ecco la mèta, la parte già raggiunta».
L’ideologia diventava più importante dell’idea di nazione: era questo ciò che intendeva Enzo Pezzato, durante il Congresso Germanico della Stampa a Vienna, nel dicembre 1944, quando parlava del bisogno di avere un comune «senso dell’Europa» (Pezzato E., Vittoria europea e bolscevismo, Edizioni «Erre», Venezia-Milano, 1945).
E anche Alessandro Pavolini avrebbe affermato: «Nonostante ogni fallace apparenza l’avversario ci appartiene, perché noi apparteniamo ad una Europa eroica, le cui luci, necessarie al mondo, non possono spegnersi» (radiodiscorso del 25 luglio 1944, per la presentazione pubblica delle Brigate Nere; cit. in Gagliani, Brigate nere cit., p. 217).
L’idea di una appartenenza comune, ad un sentire comune europeo, deve essere ricondotta ad almeno due aspetti fondamentali.
Il primo, senza ombra di dubbio, era la necessità di porre davanti alla popolazione stremata dalla guerra e che non credeva più alla possibilità di vittoria, la necessità di guardare oltre, non fermarsi alla contingenza italiana. Ponendo l’accento sull’Europa diventava possibile ricondurre la RSI a qualcosa di più grande, al Terzo Reich e alle armate tedesche, le quali, speravano i fascisti repubblicani, in un modo o nell’altro avrebbero rimesso in gioco il destino della guerra.
Dall’altra, le idee di una Europa fascista e nazionalsocialista riprendevano gli scopi che Germania e Italia avevano messo sul tavolo della guerra nel 1939-1940. Tutto sommato si può leggere un tentativo di rimanere coerenti con gli obiettivi che i due regimi totalitari si erano posti con il conflitto. Certo, nel 1943-1945 non si trattava più di porre sotto assedio gli altri Paesi e di gestire l’egemonia conquistata sul continente, bensì di sopravvivere il più possibile all’assedio che ora gli Alleati stavano ponendo al Reich e alla RSI e di tentare di difendere ciò che rimaneva del potere nazista e fascista. L’idea di una Europa nuova, di Stati Uniti della Nuova Europa (nazista e fascista) non era ancora morta. Morirà definitivamente quando l’Armata Rossa giungerà a Berlino e i carri Alleati giungeranno nella Germania occidentale.
La guerra era finita ed era giunto il momento di costruire un’Europa diversa.