L’Europa post-muro: nuovi muri e nuovi confini

Percorso a cura di Maddalena Arrighini e Alessandra Mastrodonato

A poco più di trent’anni dalla caduta del muro simbolo della Guerra fredda, nuove barriere fanno la loro comparsa in Europa. Partendo proprio da Berlino, città più di ogni altra segnata da divisioni e confini interni, il presente percorso si snoda lungo alcuni dei luoghi più rappresentativi dei cambiamenti profondi che caratterizzano l’Europa dagli anni Novanta in poi: cambiano i confini fisici degli Stati, si sedimentano i nazionalismi, si accentuano i flussi migratori.

La guerra in ex Jugoslavia è il primo evento traumatico che avrà come conseguenza la nascita di nuovi Stati e la formazione di nuovi confini. Da questo conflitto si sviluppa e si cronicizza anche un altro fenomeno: quello migratorio, soprattutto dalla zona balcanica, ma poi anche dagli altri Stati dell’ex Urss, che coinvolgerà molti Paesi dell’Europa occidentale, tra cui anche l’Italia.

In questi anni la Comunità Europea si allarga e adotta alcune misure per abolire le frontiere tra i singoli Stati membri: a Schengen viene sottoscritto l’omonimo trattato che garantisce la libertà di circolazione sul territorio dell’Unione per i cittadini dei Paesi firmatari. Il primo accordo, risalente al 1985 e in vigore dal 1995, è promosso da Francia, Belgio, Germania, Paesi Bassi e Lussemburgo. Viene ampliato nel corso degli anni fino ad essere integrato nel quadro dell’Unione Europea nel 1999, quando diventa legislazione dell’UE.

Alle soglie del nuovo millennio, l’Europa si trova ad affrontare il problema sempre più pressante dell’immigrazione a ridosso delle frontiere esterne comunitarie. Mentre il dibattito relativo ai migranti si divide fra accoglienza e respingimento, fra soluzioni temporanee e (poche) visioni di lungo termine, storie di muri e di confini tornano a incombere sul futuro dell’Unione, portando con sé fratture profonde.

A Dublino vengono firmati gli accordi che affidano la gestione dei flussi migratori ai Paesi che per primi vengono toccati dal fenomeno per la loro posizione geografica al centro del Mediterraneo. Lampedusa diventa il luogo simbolo della prima accoglienza ai migranti in arrivo dall’Africa, mentre un’altra isola dell’Egeo, Lesbo, diviene l’emblema dell’incapacità delle istituzioni europee di elaborare una risposta comune ed efficace al fenomeno migratorio.

Particolarmente critica appare la situazione nei Balcani e nell’Europa dell’Est, dove i migranti in arrivo dal Medio Oriente vengono bloccati alle frontiere e respinti oltre i confini dell’Unione, nell’ambito di politiche sempre più restrittive che vedono gli Stati maggiormente interessati dal fenomeno migratorio intensificare i controlli alle proprie dogane ed erigere muri e barriere di filo spinato lunghe diverse centinaia di chilometri per frenare l’arrivo dei rifugiati.

È il caso del confine tra Bosnia e Croazia, dove i richiedenti asilo vengono concentrati nel campo profughi di Lipa, tristemente noto alle cronache per l’estrema precarietà delle condizioni igienico-sanitarie e per gli abusi e le violenze cui sono sottoposti i migranti; della frontiera tra Ungheria e Serbia, dove insieme alle recinzioni fanno la loro comparsa le cosiddette “zone di transito” per i migranti, fatti oggetto di una vera e propria forma di detenzione arbitraria; o ancora dei confini tra Serbia e Croazia e tra Austria e Slovenia, ugualmente interessati da respingimenti in massa dei richiedenti asilo che si muovono lungo la “rotta balcanica”. Un’estensione di oltre 1.000 chilometri di recinzioni e filo spinato, cui presto potrebbe aggiungersi la costruzione di un nuovo muro anti-migranti lungo la frontiera tra la Polonia e la Bielorussia.