La caduta del Muro di Berlino, nel novembre del 1989, trascinò con sé anche le ultime vestigia dei regimi comunisti dell’Est Europa, compreso quello di orientamento prima stalinista e poi filocinese sorto in Albania dopo la fine del Secondo conflitto mondiale. Nel 1946 la guida della Repubblica Socialista d’Albania era, infatti, stata assunta da Enver Hoxha – marxista-leninista, segretario del Partito del Lavoro Albanese (PLA), che aveva combattuto contro le truppe di occupazione naziste e fasciste – , il quale aveva creato un regime rigidamente isolazionista, imponendo l’ateismo di Stato e reprimendo i diritti civili con l’abolizione della libertà di religione, di stampa e di associazione.
Nel 1982, ormai malato, Hoxha cedette il comando al suo più fidato delfino, Ramiz Alia. Questi, sotto la spinta dei mutamenti che stavano avvenendo negli altri Paesi del blocco sovietico dove i partiti comunisti andavano frantumandosi insieme ai sistemi politici che rappresentavano, cercò di avviare una politica di moderate riforme. A dispetto di una vaga apertura diplomatica verso occidente, anche Alia continuò, tuttavia, a mantenere il Paese in una situazione di sostanziale isolamento, tanto che non tutti in Albania seppero subito che il Muro era caduto.
I primi scricchiolii del regime si iniziarono ad avvertire nel gennaio del 1990, quando a Scutari, una delle città più popolose nel nord del Paese, centinaia di persone si riversarono in piazza per protestare contro il caroviveri e la povertà dilagante e tentarono di abbattere una statua di Stalin. A seguito dell’estendersi della mobilitazione anche ad altre città, Alia fu costretto a qualche timida concessione: a maggio il Comitato Centrale del PLA decise di accordare ai cittadini albanesi la possibilità di espatriare e di possedere un passaporto. Ciò non bastò, tuttavia, a placare le proteste, ulteriormente esacerbate dalla disastrosa condizione economica del Paese e dalle fortissime pressioni internazionali in direzione di un totale superamento del “modello hoxhista”.
Nel dicembre del 1990, i partiti politici vennero legalizzati e furono persino indette libere elezioni per la primavera seguente, ma neppure tali aperture valsero a scongiurare il tracollo economico, sociale e istituzionale del Paese, travolto da violenti moti di piazza, scioperi della fame (famoso quello degli studenti universitari a Tirana) e una condizione di caos ingovernabile. La vittoria di misura del PLA nelle elezioni del marzo 1991 permise ad Alia di rimanere alla guida del Paese, ma non di dare all’Albania un governo stabile.
Nell’estate, con un’inflazione al 270% e la disoccupazione che sfiorava il 70% sul totale della popolazione attiva, le tensioni ripresero vigore e, con esse, si moltiplicarono anche le “fughe” verso l’opposta sponda dell’Adriatico.
Fu in questo contesto che si verificò uno degli episodi più emblematici delle drammatiche conseguenze prodotte dalla difficile transizione post-comunista del Paese. In una torrida giornata di inizio agosto, nel porto di Durazzo, una folla impetuosa di cittadini albanesi sequestrò la nave mercantile Vlora, che trasportava zucchero proveniente da Cuba. Il comandante Halim Milaqi fu costretto a ripartire con un carico di umanità, quasi ventimila uomini, donne e bambini stipati in ogni angolo e abbarbicati persino sugli alberi del grande bastimento.
La nave puntava verso l’Italia: nell’immaginario degli albanesi una sorta di “terra promessa”, un mitico eden a due passi da casa, il cui benessere e la cui prosperità trovavano ampia eco nelle reti televisive e negli altri media italiani, seguitissimi nel piccolo Paese balcanico al di là del mare.
Respinta dal porto di Brindisi, dove già nelle settimane precedenti si erano verificati numerosi sbarchi (così come in diversi altri porti pugliesi, da Otranto a Molfetta), dopo un’intera notte di navigazione, la mattina dell’8 agosto 1991 la Vlora fece rotta sul vicino porto di Bari.
Nel capoluogo pugliese non c’erano né il prefetto né il questore, entrambi in ferie, e le autorità cittadine, sindaco in testa, furono avvisate quando la nave era già in porto. Ogni tentativo di respingere l’imbarcazione impedendone l’attracco si rivelò vano: il comandante Milaqi, circondato al timone da uomini armati e consapevole della crescente insostenibilità della situazione a bordo man mano che il caldo aumentava e con esso il disagio delle migliaia di persone ammassate sui ponti e nelle stive, forzò il blocco, comunicando di avere dei feriti a bordo e di non essere in grado di fare marcia indietro.
La nave fu fatta ormeggiare nel punto più lontano dalla città, mentre da Roma giungeva l’ordine di bloccare gli albanesi al porto e di farli ripartire entro qualche ora. Fu subito chiaro, tuttavia, che un simile proposito era del tutto velleitario. Prima ancora che la nave accostasse alla banchina, centinaia di persone si buttarono in acqua, in cerca di frescura e di una via di fuga. Nel giro di poche ore, sul molo si riversò una massa incalcolabile di uomini, donne e bambini che, a gruppi, si dispersero per la città o si avviarono verso i binari della ferrovia.
Le autorità locali, coordinate dal viceprefetto Giuseppe Cisternino e del sindaco Enrico Dalfino, cercarono di dare qualche conforto ai nuovi arrivati, distribuendo acqua e viveri e soccorrendo i feriti, le donne in avanzato stato di gravidanza e i tanti che cedevano all’arsura del sole di agosto, subito trasportati negli ospedali cittadini. Restava, però, il problema di dove sistemare, almeno provvisoriamente, quelle migliaia di persone giunte dal mare. Si decise, così, di trasferire gli albanesi nel vicino Stadio della Vittoria, in attesa che il governo organizzasse le operazioni di rimpatrio.
Il vecchio impianto sportivo ormai in disuso venne rapidamente trasformato in una sorta di campo-profughi, chiuso da transenne e cancellate di ferro e circondato da un cordone di poliziotti per impedire possibili fughe da parte dei migranti. In serata si verificarono i primi episodi di rivolta e per otto giorni lo stadio rimase letteralmente ostaggio dei gruppi più facinorosi, mentre le forze dell’ordine, impossibilitate ad accedere alla struttura, lanciavano dall’alto di un’autoscala dei vigili del fuoco acqua e rifornimenti alle migliaia di persone asserragliate all’interno.
Cominciò allora un duro braccio di ferro tra il governo di Roma, fermo nel suo proposito di negare ogni forma di accoglienza a quella marea umana, assicurandone il prima possibile il rimpatrio tramite la predisposizione di un ponte aereo, e il sindaco Dalfino, che invece chiedeva con insistenza che la gestione dell’emergenza passasse all’esercito e alla Croce Rossa e che si procedesse quanto prima all’allestimento di tendopoli, cucine e infermerie da campo, in modo da alleviare le sofferenze di quella umanità dolente messasi in cammino alla ricerca di libertà e benessere. Come affermò, infatti, il risoluto professore democristiano che da un anno era primo cittadino di Bari,
«Sono persone, persone disperate. Non possono essere rispedite indietro, poiché noi siamo la loro unica speranza».
Una polemica, questa, che si protrarrà per diversi giorni, fino all’insulto del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che accuserà Dalfino di essere un “cretino”, chiedendone la rimozione al Ministro dell’Interno.
Proseguiva, nel frattempo, l’assedio dello stadio, con sassaiole degli albanesi contro la polizia e cariche delle forze dell’ordine contro i migranti che, a gruppi più o meno numerosi, tentavano la fuga. Nell’Italia agostana di quei giorni, nella totale assenza delle istituzioni nazionali, risuonò con forza il j’accuse di don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, dalle colonne di “Avvenire”:
«Le persone – si legge nel suo pezzo vibrante – non possono essere trattate come bestie, prive di assistenza, […] con i panini lanciati a distanza, come allo zoo, senza il minimo di decenza […]; forse come credenti avremmo dovuto levare più forte la nostra condanna ed esprimere con maggiore vigore la nostra indignazione. Sono sconfitti e umiliati gli albanesi; sconfitti e umiliati anche noi, perché costretti a sperimentare ancora una volta come la nostra civiltà, che nella sbornia di retorica si proclama multirazziale, multietnica e multireligiosa, non sa ancora dare quelle accoglienze che hanno sapore di umanità».
Già il 9 agosto, intanto, i primi gruppi di albanesi erano stati rimpatriati sul traghetto Tiziano o trasferiti all’aeroporto di Palese per essere imbarcati sui C130 dell’aeronautica. Nei giorni seguenti, diverse centinaia di migranti vennero ricondotte a Durazzo da altri due traghetti, il Grecia e il Malta. Restavano da convincere i circa tremila disperati ancora stipati nello stadio. Venne così annunciato che chi avrebbe accettato di tornare in patria avrebbe ricevuto in regalo un cambio di abiti e 50.000 lire, una piccola fortuna in Albania. Molti accettarono, ma non tutti. A questi ultimi, dopo altri tre giorni di scontri con la polizia, venne promesso che sarebbero stati trasferiti in altre città italiane, ma una volta rotto l’assedio, furono ammassati sui pullman e portati all’aeroporto, con destinazione Tirana. Il 16 agosto l’“International Herald Tribune” e i giornali di tutto il mondo poterono titolare che l’«invasione di Bari» era stata respinta.
Quello della Vlora resta comunque il più grande sbarco di migranti mai verificatosi in Italia su una singola imbarcazione. Un esodo, conseguente alla caduta del “muro” del Basso Adriatico, che ha avuto l’effetto di far confrontare l’Italia, per la prima volta, con un grappolo di parole e di questioni che, negli anni seguenti, sarebbero divenute sempre più familiari: confini, frontiere, profughi, barconi, trafficanti, respingimenti, naufragi…
Contenuti multimediali
- Antenna Sud, tg dell’8/8/2011 – Vent’anni fa la Vlora approdava nel porto di Bari (intervista al comandante della nave, Halim Milaqi):
- Open Migration – A bordo della Vlora (dal documentario La nave dolce, di Daniele Vicari):
- Antenna Sud, tg dell’8/8/2011 – Vent’anni fa la Vlora approdava nel porto di Bari (intervista al comandante della nave, Halim Milaqi)
- L’Odissea albanese – Le prime immagini della Vlora nel porto di Bari
- L’Odissea albanese – La sintesi dei fatti nel servizio del tgr Puglia