L’isola del Mar Egeo ospita il più grande centro di accoglienza e identificazione di migranti d’Europa. Si tratta di uno dei diversi hotspot decisi dall’UE per tentare di gestire i flussi migratori sui propri confini: luoghi in cui dovrebbero transitare quanti richiedono il riconoscimento di rifugiati, perché nei rispettivi paesi sarebbero in pericolo di vita. La permanenza dei migranti negli hotspot sarebbe dunque provvisoria, ma nella pratica si evince che l’attesa media per ottenere il colloquio per l’asilo politico è di diversi mesi che spesso si tramutano in anni.
Dal 2014 sono migliaia gli arrivi in Grecia, soprattutto dal Medio Oriente, in particolare dalla Siria, dall’Afghanistan, Iraq e Palestina, il picco di presenza nei vari centri delle isole greche si registra nel 2015 con più di 850.000 migranti. Un drastico calo degli sbarchi coincide con l’attuazione dell’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia, stipulato nel 2016, per il contenimento dei migranti. Nonostante questo, il centro di accoglienza allestito a Moria, sull’isola di Lesbo, che ospita il 46% di quanti giungono in Grecia, registra una situazione di sovraffollamento cronico: un hotspot che dovrebbe contenere massimo 3000 persone, ne ospita invece stabilmente più del doppio, tra le 5000 e le 8000. Le condizioni igienico sanitarie sono estremamente precarie, i migranti sono suddivisi per etnie in parti diverse del campo trasformate in tendopoli, la gente passa la giornata in fila per i bagni, per la mensa, per le cure mediche. Rivolte e aggressioni sono diventate la norma. Il personale impiegato dal governo greco per la gestione del campo è insufficiente e non esiste un piano operativo per occuparsi dei migranti più vulnerabili, come donne gestanti e neonati. Quanti giungono su quest’isola scappano da situazioni di conflitto e richiedono lo status di rifugiati: ma le pratiche burocratiche per ottenere tale certificazione durano mesi in cui le difficoltà quotidiane sono molteplici, e diversi studi delle varie Ong operanti all’interno del campo, segnalano una grave diffusione di forme depressive non solo tra gli adulti, ma anche tra i minori. I traumi della guerra lasciata alle loro spalle tendono a riaffiorare e cronicizzarsi in una situazione di precarietà così estrema e non sapere quanto a lungo si dovrà stazionare in quel caos, mina ulteriormente la tenuta psicofisica degli ospiti, soprattutto i più fragili.