Il 15 giugno 1990, a pochi mesi dalla caduta del Muro di Berlino, i 12 Paesi appartenenti all’allora Comunità europea (Belgio, Danimarca, Germania, Grecia, Spagna, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Regno Unito) firmarono a Dublino l’omonima “convenzione”, con l’obiettivo di armonizzare le politiche nazionali in materia di asilo e garantire un’adeguata protezione ai rifugiati, nel rispetto di quanto prescritto dalla Convenzione di Ginevra (1951) e dal successivo Protocollo di New York (1967).
Entrato in vigore il 1° settembre 1997 per i primi 12 Stati firmatari, cui si sono aggiunti il 1° ottobre del medesimo anno l’Austria e la Svezia e il 1° gennaio 1998 anche la Finlandia, il cosiddetto “sistema di Dublino” stabiliva, in particolare, quali Paesi fossero competenti per l’esame delle richieste di asilo all’interno dell’Unione, introducendo il principio del primo Paese d’arrivo, secondo cui lo Stato responsabile della presa in carico della domanda è quello d’ingresso nell’Unione.
Dopo l’entrata in vigore del trattato di Amsterdam nel 1999, il diritto d’asilo è diventato di competenza comunitaria con l’approvazione del “regolamento Dublino II”, che nel 2003 ha sostituito la precedente convenzione. Il nuovo regolamento, che ribadisce nella sostanza il principio del primo Paese d’arrivo, si applica a tutti gli Stati dell’Unione – tranne la Danimarca, che ha negoziato una clausola di esclusione – e a quattro Paesi non comunitari: la Svizzera, il Liechtenstein, la Norvegia e l’Islanda. È stato, inoltre, istituito il database Eurodac (acronimo di European dactyloscopie), un archivio informatizzato con sede a Strasburgo, in cui vengono schedate le impronte digitali di tutti coloro che richiedono asilo nell’Unione europea oppure che vengono fermati mentre cercano di varcare illegalmente una frontiera esterna dell’Unione o sono sorpresi a soggiornarvi clandestinamente.
Risale, invece, al 2013 un’ulteriore revisione del “sistema di Dublino”, il cosiddetto “regolamento Dublino III”, che ha aggiornato il precedente, confermandone i principi di fondo, ma apportando nel contempo alcune modifiche. La nuova disciplina recepisce la norma in base alla quale i cittadini extracomunitari che fuggono dai propri Paesi di origine perché in guerra o in quanto perseguitati per motivi di natura politica o religiosa possono fare richiesta di asilo solo nel primo Paese membro dell’UE in cui arrivano. Viene, dunque, ribadito il divieto di presentare domanda di asilo in più di uno Stato, al fine di evitare il proliferare delle richieste di protezione internazionale (asylum shopping) e ridurre il numero di richiedenti asilo “in orbita”, che transitano da uno Stato membro all’altro. Se un rifugiato fa domanda di asilo contemporaneamente in più Paesi, la doppia domanda viene infatti rilevata dal database Eurodac e il richiedente viene rimandato nel Paese di primo approdo.
Il “regolamento Dublino III” ha introdotto, tuttavia, anche alcune significative novità, tra le quali l’ampliamento dei termini per il ricongiungimento familiare, la possibilità di fare ricorso contro un ordine di trasferimento e maggiori tutele per i minori. È stato, altresì, precisato che non può presentare domanda di asilo chi abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o contro l’umanità oppure un reato grave di diritto comune al di fuori del Paese di accoglimento e prima di esservi ammesso in qualità di rifugiato e chi si sia reso colpevole di azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.
Nonostante le modifiche apportate nel 2013, il “sistema di Dublino” è stato oggetto di numerose critiche, in particolare da parte del Consiglio europeo per i rifugiati e dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Pensato originariamente per gestire le domande di asilo dai Paesi ex comunisti dell’Europa dell’est dopo la caduta del Muro, il regolamento è accusato di non garantire adeguata protezione ai richiedenti asilo, spesso costretti ad aspettare anni prima che le loro richieste siano esaminate. A seguito dell’aumento esponenziale dei flussi migratori, che nel nuovo millennio hanno raggiunto livelli inaspettati e non prevedibili negli anni Novanta, la norma che impone l’obbligo di registrarsi nel Paese di arrivo, dove il profugo è costretto a chiedere lo status di rifugiato, senza poter proseguire per un altro Stato membro, si è rivelata per molti aspetti inadeguata a fronteggiare il mutato quadro socio-politico internazionale e, a detta di molti, profondamente anacronistica.
Tale principio ha finito per congestionare i centri di identificazione dei Paesi più facili da raggiungere via mare o via terra, come l’Italia e l’Ungheria, e ha creato una situazione paradossale che implica, da una parte, l’impossibilità per migliaia di profughi di raggiungere i Paesi in cui vorrebbero stabilirsi, come la Germania o la Svezia e, dall’altra, una pressione eccessiva sugli Stati di primo approdo, che non riescono ad accogliere e gestire i migranti in arrivo, ma sono costretti a trattenerli, registrarli e ospitarli. Un aspetto, quest’ultimo, che mette a rischio la stessa garanzia per i richiedenti asilo di ricevere un trattamento equo e di vedere le proprie domande prese in adeguata considerazione. Senza contare il fatto che il regolamento predisposto a Dublino non tiene conto a sufficienza dei ricongiungimenti familiari e risulta fortemente carente in materia di protezione e tutela dei minori non accompagnati.
Ulteriori elementi di preoccupazione riguardano, infine, il ricorso alla detenzione per il trasferimento dei richiedenti asilo dal Paese in cui fanno domanda allo Stato di ingresso nell’Unione, ritenuto competente nella gestione della richiesta (il cosiddetto “Dublin transfer”), e la negazione di una effettiva possibilità di ricorso contro i trasferimenti; procedure, queste, duramente criticate dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, in quanto apertamente in contrasto con la salvaguardia dei diritti dei rifugiati.
Tali criticità sono emerse con ancora maggiore evidenza in seguito alla cosiddetta “crisi europea dei rifugiati” del 2015, che ha messo in luce la distribuzione ineguale delle richieste d’asilo tra i Paesi europei e le difficoltà crescenti degli Stati alle frontiere meridionali dell’Unione, che sono la porta d’ingresso per gran parte dei migranti e dei profughi. Ciò ha portato al centro del dibattito pubblico la necessità di predisporre nuove regole comunitarie in materia di protezione internazionale.
Una prima bozza di riforma, presentata dalla Commissione europea nel maggio 2016, è rimasta lettera morta, in quanto non modificava nella sostanza i criteri di base del “sistema di Dublino”. Una proposta di revisione più ampia è stata, invece, approvata dal Parlamento europeo nel novembre 2017, benché non sia stata poi adottata nei fatti. Essa prevedeva un superamento dei criteri di Dublino e sostituiva il principio del primo Paese d’arrivo con un meccanismo permanente e automatico di ricollocamento dei richiedenti asilo secondo un sistema di quote, che avrebbe dovuto garantire una più equa distribuzione territoriale dei profughi tra tutti gli Stati dell’Unione. L’altra novità era l’introduzione di criteri che tenessero conto dei rapporti e dei legami familiari del richiedente asilo con persone già residenti nello Stato in cui desidera presentare domanda.
Per facilitare l’adozione di un nuovo regolamento, la Bulgaria, presidente di turno del Consiglio europeo nel primo semestre del 2018, ha proposto un compromesso per rendere volontario il sistema di distribuzione dei profughi e consentire ai Paesi contrari ad accogliere rifugiati la possibilità di versare del denaro (circa 30.000 euro per ogni persona rifiutata) allo Stato d’accoglienza. Il piano è stato, tuttavia, bocciato nella riunione dei ministri dell’Interno dell’Unione tenutasi in Lussemburgo il 5 giugno 2018. Ad opporsi al compromesso sono stati i Paesi baltici e quelli del gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia), refrattari a qualsiasi ipotesi di quote, e per motivi diversi anche altri Stati dell’Europa occidentale, tra cui la Francia, la Germania, i Paesi Bassi e l’Italia.
In seno al Consiglio europeo è stato, infine, raggiunto un accordo minimo sulla gestione dei flussi migratori, che prevede il ricollocamento dei profughi tra i vari Paesi europei su base volontaria, senza però affrontare in maniera diretta il tema della protezione internazionale dei rifugiati. In seguito a ciò, la Commissione europea sembra aver del tutto abbandonato l’idea di cambiare le regole comunitarie sul diritto d’asilo, sebbene negli scorsi mesi il precipitare della situazione in Afghanistan, con il conseguente aumento del flusso di rifugiati verso i Paesi europei, ha riportato il tema dell’accoglienza dei migranti all’ordine del giorno nell’agenda politica dell’Unione.
Da più parti, infatti, è stato evidenziato come l’incapacità dell’Unione europea di gestire in modo efficace il fenomeno migratorio comporti un duplice effetto: da un lato, non affrontando il problema, continuano a svilupparsi, soprattutto nei Paesi maggiormente esposti all’arrivo dei profughi, rigurgiti nazionalisti che troppo spesso degenerano in atteggiamenti di stampo xenofobo; dall’altro si riduce la fiducia nelle istituzioni europee, incapaci di trovare risposte concrete. E mentre l’Unione fa sempre più fatica a mettere in campo politiche realmente inclusive e rispettose dei diritti dei migranti, in molti Paesi europei vengono eretti chilometri di muri alle frontiere per impedire di fatto l’ingresso dei profughi.
Rapporto tra richieste di trasferimento e trasferimenti effettivi (FONTE: Aida – Asylum information database – agosto 2021):
Servizio di Euronews del 16 settembre 2020 sulla revisione del “regolamento Dublino III” (con un intervento della Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen):
La riforma del “regolamento Dublino III” spiegata dall’allora europarlamentare Elly Schlein (15 maggio 2017):